Mai come in questo momento i paradossi del calcio italiano sono stati così clamorosamente evidenti. Uno di questi, forse il più importante per prestigio, è quello che vede da una parte una nazionale maggiore reduce da una doppia mancata qualificazione ai mondiali e faticosamente aggrappata alla probabilità di partecipare al prossimo europeo, e dall’altra un movimento nazionale giovanile reduce da risultati storici. Risultati che ammazzano l’abusato luogo comune secondo cui in Italia non cresce più il talento, e i suoi corollari che, guarda un po’, tendono, usando una narrativa che in questa nazione funziona da almeno cinquant’anni un po’ per ogni questione, a buttare la colpa sui giovani. La scorsa estate la nazionale under 20 è stata ad un passo dal conquistare il mondiale di categoria, dopo aver brutalizzato, tra le altre, Brasile e Inghilterra, ovvero due dei migliori bacini di talento attuali. Un mondiale sottovalutato solo da chi non lo segue (e recentemente anche da una FIFA distratta da troppe babbucce baciate) , perché chi lo fa sa che da questa competizione sono usciti alcuni dei giocatori che hanno caratterizzato il loro tempo, a partire da Messi. Dopo un mesetto i fratellini dell’under 19 hanno pensato bene di portarselo a casa il trofeo, dopo un girone giocato ingenuamente e una crescita che li ha portati a battere Spagna e Portogallo, due dominatrici storiche a certi livelli. Insomma, il talento cresce ancora, anche in un paese che a livello giovanile offre ancora lo stesso telaio organizzativo di quando il pallone era ancora quello a pentagoni neri ed esagoni bianchi. Ma che fine fa? In quale buco nero si perde? Ovviamente in quello del denaro, secondo me. L’attuale serie A vive un momento in cui le grandi squadre e le piccole sono accomunate, per motivi diversi, da un bisogno comune di soldi che rende il giovane talento italiano un prodotto difficile sia da vendere, sia da comprare. Chi cresce il talento e conta sulla cessione, magari per pianificare una nuova stagione, non lo vuole svalutare, confidando anche in un mercato più ampio del solo panorama nazionale, mentre chi deve comprare non può pagare come un tempo e preferisce il mercato estero, che offre diverse soluzioni, tra le quali quella dei prestiti di, esuberi degli ipertrofici top club europei. In questa situazione, il giovane talento italiano ha attualmente tre prospettive: 1) rimanere dov’è, se il club d’appartenenza può sostenerne anche la crescita di pretese economiche 2) trovare casa in un club estero di seconda fascia in campionati più ricchi 3) rimanere in Italia ma in un club con status di poco superiore ma economicamente più ricco. Ognuna di queste opzioni toglie la possibilità di salire un fondamentale gradino di crescita che è l’esperienza internazionale ai livelli più alti. Si è innescato, quindi, un circolo nefasto che danneggia i giovani calciatori ma, al tempo stesso, anche l'economia di un sistema che dipende, ormai, quasi esclusivamente dai movimenti dei club di altre realtà europee. “Cercasi giovane con esperienza”, anche nel calcio questa formula miete generazioni e la nazionale è il risultato di questa mietitura. Mancini, allenatore che non amo, lo sapeva e con le sue convocazioni, i suoi stage in cui hanno figurato calciatori senza un minuto in serie A, ha voluto dare un segnale e puntare un riflettore sui giovani talenti italiani. Come se ne esce? Per me principalmente azzerando un sistema di privilegi che premia chi ha sfasciato la baracca e che, cercando principalmente di non sprofondare nel default, non investe sul talento. Una redistribuzione degli introiti paritaria potrebbe portare ad una gerarchia più fluida in serie A, in cui anche il club medio avrebbe la possibilità di aspirare ad affacciarsi in Europa con i suoi giovani ragazzini Italiani. Poi, spero, con operazioni come quella del Viola Park, ovvero una struttura in cui il contatto stretto tra giovanili e professionisti può aiutare lo switch tra due realtà che in Italia, molto più che in altri paesi, sono ancora molto distanti. D'altronde anche gli stessi top club della Premiere League, ovvero le entità che muovono più denaro sul mercato, grazie a questa vicinanza, possono presentare in rosa calciatori cresciuti in casa o sfruttarne le cessioni milionarie per migliorare i bilanci. E magari quei giovani calciatori sono gli stessi maltrattati dai pari età nostrani in qualche torneo giovanile.
Il mal d’Africa è una cosa che fino a due settimane fa io consideravo una cazzata inventata da qualche turista per giustificare il viaggio appena fatto. Avevo una marea di timori e pregiudizi che non mi permettevano di concepire come fosse possibile avere nostalgia dell’epicentro del terzo mondo. E invece scopro sulla mia pelle che di questo, come di tante altre cose, non sapevo proprio un cazzo. L’Africa ti entra dentro. È incredibile come un posto così sporco, così lontano dal nostro concetto di pulizia, riesca a ripulirti così a fondo. Kaolack è una città che non ha niente di turistico. L’intero agglomerato urbano è un’insieme di macerie, case storte che tentano di ergersi, sabbia, monnezza sparsa e scheletri di vecchie auto depredate di qualsiasi parte minimamente funzionante. Per le strade caotiche e dissestate si sviluppa una specie di vorticoso ballo a 70 all’ora in cui esseri umani, automobili, motorini, animali e carri a trazione asinina si sfiorano incessantemente...

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