La partita di ieri è stata una partita importante per diversi motivi. Per la vittoria, sicuramente, perché qualsiasi altro risultato avrebbe fatto sprofondare l’ambiente in uno di quegli psicodrammi tutti viola che personalmente mi mancano come le emorroidi a grappolo. È stata importante perché ha certificato che tra le idee del nuovo tecnico e l’accettazione di queste da parte della squadra c’era una crepa piccola come la faglia di Sant’Andrea. A prescindere dalle difficoltà dovute ad un difficile assemblaggio, il rigetto dei nuovi principi di gioco è stato evidente. Palladino è venuto a Firenze con un modello di gioco in testa e non si può dire che non abbia provato a farlo assorbire ai suoi ragazzi. Anche cercando di far capire loro che certe convinzioni si sposavano con le loro caratteristiche tecniche. Il caso più eclatante è quello di Biraghi, la cui presenza da terzo a sinistra aveva teoricamente un senso in un contesto tattico in cui i difensori devono incidere tecnicamente, andando spesso a riempire il centrocampo e interagendo con gli altri reparti. Cose che il capitano, forse intimorito dalla consapevolezza della sua tenerezza difensiva, non ha mai fatto. Rimanendo bloccato dietro e contribuendo, così, a mantenere difesa bassa e centrocampo aperto. L’idea aveva senso, l’applicazione non c’è stata. Come non ci sono state tracce del resto. La squadra non è riuscita mai a mostrare nulla di quello che serve per trasformare uno schieramento imperniato sulla difesa a tre in un sistema di controllo proattivo della partita. È mancata l’applicazione del concetto di “uomo su uomo”, di quell’aggressività, cioè, assolutamente necessaria per difendere in avanti e portare la palla nelle zone più indicate per decidere tecnicamente il match. Da queste mancanze è nata una squadra che si è auto ibridata, diventando bassa e passiva pur avendo caratteristiche tecniche diverse da questo atteggiamento. L’inversione tattica del secondo tempo ha in pochi minuti avuto due effetti: donare maggiore sicurezza alla squadra e sconfessare due mesi di lavoro. Lavoro non certo supportato da un mercato ai confini della realtà. Si ripartirà, dunque, dalla difesa a quattro e questo significa che la parte tattica dovrà essere riaperta in termini di lavoro settimanale proprio mentre si va verso un periodo in cui lo spazio settimanale diventa poco. Per fortuna la partita di ieri ha lasciato anche altre certezze, tipo l’importanza di avere Gudmundsson in squadra e, soprattutto, di aver trovato in Kean, oltre che un attaccante affidabile, un totem caratteriale da seguire. Perché, a mio parere, se siamo sopravvissuti mentalmente al primo tempo di ieri e, più in general, a questo inizio di stagione, il merito va in gran parte all’’attitudine e alla voglia di questo ragazzo. Che regala bagliori di pericolosità anche quando l’inerzia della partita sembra scontata e, quindi, tiene a galla tutti nel mare in burrasca.
Il mal d’Africa è una cosa che fino a due settimane fa io consideravo una cazzata inventata da qualche turista per giustificare il viaggio appena fatto. Avevo una marea di timori e pregiudizi che non mi permettevano di concepire come fosse possibile avere nostalgia dell’epicentro del terzo mondo. E invece scopro sulla mia pelle che di questo, come di tante altre cose, non sapevo proprio un cazzo. L’Africa ti entra dentro. È incredibile come un posto così sporco, così lontano dal nostro concetto di pulizia, riesca a ripulirti così a fondo. Kaolack è una città che non ha niente di turistico. L’intero agglomerato urbano è un’insieme di macerie, case storte che tentano di ergersi, sabbia, monnezza sparsa e scheletri di vecchie auto depredate di qualsiasi parte minimamente funzionante. Per le strade caotiche e dissestate si sviluppa una specie di vorticoso ballo a 70 all’ora in cui esseri umani, automobili, motorini, animali e carri a trazione asinina si sfiorano incessantemente...

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