Capitolo 2: Olio canforato
Carlo.
Carlo.
Carlo.
Il nome gli girava in testa come una mosca maledetta, senza dargli tregua.
Carlo, Carlo, Carlo.
Il ritmo era irregolare, come un colpo di tosse secca, uno starnuto di memoria che non riusciva a scacciare.
Si passò una mano sulla faccia, come a strappare via quel rumore fastidioso.
Carlo, Carlo, Carlo.
Paolo strinse le palpebre, grattò i talloni contro il lettino.
Niente da fare.
Quel nome tornava su, più forte ogni volta, rimbalzava nelle pareti vuote dello spogliatoio e si incastrava tra le luci fredde del soffitto.
Carlo, Carlo, Carlo.
Quello che aveva allenato nelle categorie che non guardava nessuno, quello che si era trascinato per anni credendo che un giorno sarebbe arrivato, e invece era rimasto lì, fermo, incagliato nella stessa miseria.
Carlo, che aveva avuto una chance da giovane.
Carlo, che aveva allenato la Juventus — almeno così diceva, anche se non se lo ricordava nessuno.
Carlo, che era stato trovato dalla moglie, un giorno qualunque, appeso alla trave del garage.
Carlo.
Carlo.
Carlo.
Un colpo secco, un cambio di marcia.
Come se la puntina del giradischi fosse saltata via da quel solco malato.
Claudia.
Paolo spalancò gli occhi, come se qualcuno gli avesse versato acqua gelata sulla faccia.
Claudia.
Sua moglie.
Lei che non c’entrava niente con Carlo, con il calcio, con tutta quella fatica inutile.
Lei che non lo aspettava mai fuori dagli spogliatoi, che non si sedeva mai in tribuna a guardarlo perdere o vincere.
Lei che però c’era sempre, ogni volta che tornava a casa stravolto, con le scarpe infangate e la voce rotta.
Un piatto caldo sul tavolo. Una mano leggera sulla schiena.
Paolo si accese una sigaretta immaginaria e chiuse gli occhi, lasciando che il pensiero di Claudia lo portasse via per un attimo da lì.
All’inizio era diverso.
Aveva cominciato quasi per caso.
Faceva il meccanico nel laminatoio, passava le giornate chiuso dentro quel rumore continuo, dentro quell’odore di ferro bruciato e di grasso.
Il calcio era solo una chiacchiera da bar, una scusa per prendersi una birra in più e per litigare di tattiche che non importavano a nessuno.
Una sera, seduto al solito tavolino con la solita birra sgasata, qualcuno glielo aveva detto:
“Paolo, perché non ci provi tu? Almeno capisci di calcio meglio di quell’altro scemo.”
Di solito avrebbe risposto:
“Ma vaffanculo.”
L’aveva detto così tante volte, a così tante cose.
Quella sera, invece, non si era capito nemmeno lui.
Un “sì” gli era scappato tra i denti prima che potesse fermarlo.
Un “sì” buttato fuori tra un mezzo sorriso e un brivido di paura pura.
Il campo dove andava ad allenare era una lingua di terra spelacchiata, piazzata davanti al cimitero del paese.
Ogni volta che un pallone volava oltre la rete rotta, finiva tra le tombe.
Paolo chiudeva sempre per ultimo, aspettava che tutti fossero andati via, poi attraversava il cancello arrugginito e si metteva a cercare i palloni tra i vialetti di ghiaia.
A volte si sedeva su una panchina, si accendeva una sigaretta e guardava le foto in bianco e nero sui fornetti.
Volti sorridenti, facce giovani di gente che ora riposava sotto due metri di terra.
Paolo tirava una boccata lunga e pensava che almeno lì, tra i morti, nessuno rompeva le scatole.
Nessuno pretendeva vittorie, nessuno fischiava o bestemmiava o sparava giudizi addosso.
Solo il vento tra le croci e l’odore freddo della sera.
Un colpo secco di batteria, poi un boato improvviso.
We are the Champions, my friend…
Paolo si riscosse.
Aprì gli occhi di scatto.
Il lettino sotto di lui tremava leggermente, come tutto lo stadio.
Il suono era così forte che sembrava volerlo strappare via da lì, riportarlo a forza nel presente.
Le gambe gli penzolavano ancora dal bordo.
Il cuore era un tamburo sgonfio nel petto.
Sentiva il sudore ghiacciato lungo la schiena, la bocca secca come sabbia.
Guardò il soffitto, le luci al neon che sembravano lontanissime, come stelle viste attraverso una pozza d’acqua sporca.
E si chiese, una volta di più, che diavolo ci faceva lí.

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