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Capitolo 1: Thè liofilizzato 


Le gambe di Paolo penzolavano dal lettino, i piedi quasi a sfiorare il pavimento. Il corpo sembrava non rispondere più, come se fosse tutto troppo pesante, e la testa gli martellava, la mente in tumulto. La luce dei led illuminava la stanza in modo freddo e spersonalizzato. La finale di Champions League era lì fuori, lo stadio pieno di un rumore che non riusciva più a sentire. La sua squadra si stava preparando in campo, ma lui non riusciva a staccarsi da quel vuoto che lo stava risucchiando. Non provava eccitazione, né paura. Solo un formicolio che lo faceva sentire estraneo a se stesso, come se fosse intrappolato in un presente che non riusciva a comprendere.


Il respiro si faceva più pesante, la mente più confusa. Cercava di capire come ci fosse arrivato, ma niente sembrava avere un senso. La sua carriera? La scalata dalla terza categoria fino a quella panchina, dove, a pochi minuti dal fischio d’inizio della finale, si sentiva in bilico come non mai. Cosa significava tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva conquistato? Si trovava a un passo dal vertice, ma sembrava più un incidente, un errore, che un traguardo. Non riusciva a sentirsi soddisfatto, non sentiva nemmeno il peso dell’orgoglio che gli avrebbero detto di provare.


Poi, come un lampo, gli arrivò l’immagine di Carlo. Carlo, l’uomo che era stato imposto al suo fianco, come vice. Un allenatore che non aveva scelto, ma che il presidente – un vecchio amico – aveva deciso di mettergli accanto. “Ti serve qualcuno di esperienza,” gli aveva detto, come se quella fosse l’unica possibilità di crescere. Paolo aveva accettato, ma mai con entusiasmo. Non voleva stare accanto a Carlo. Non era mai stato quello il suo sogno.


Carlo era l’uomo che il presidente aveva scelto, un ex calciatore della Juventus, ma uno che non aveva mai saputo sfondare. Quel passato che nessuno voleva più ricordare, ma che Carlo non riusciva a gettare via. Era un uomo che sembrava aver fatto pace con il fallimento, ma che lo portava con sé come una maschera da indossare ogni giorno. Paolo lo guardava da vicino, ma non riusciva a capire se quello fosse un uomo stanco o solo uno che si era ritrovato in una vita che non aveva mai voluto. Un uomo che nascondeva un malessere che nessuno voleva vedere. Un malessere che non aveva mai smesso di consumarlo.


Non che Carlo fosse mai stato cattivo, ma si sentiva lontano. Paolo pensava che fosse solo un tipo introverso, che si rifugiava nel silenzio. Ma con il tempo, con ogni partita persa, con ogni allenamento che sembrava essere solo un’altra forma di sopravvivenza, Paolo cominciò a capire che Carlo non stava solo soffrendo per le difficoltà della squadra. Stava soffrendo per sé. Non era un allenatore, era un uomo in fuga da un passato che lo stava divorando. E Paolo, seppur giovane e inesperto, sentiva quella stessa fuga dentro di sé. Un giorno, Paolo se ne accorse chiaramente. Carlo non riusciva più a parlare, non riusciva a guardarlo negli occhi. Non c’era più quella scintilla di orgoglio che avevano visto tutti all’inizio. Solo un’ombra di ciò che era stato.


Poi arrivò la notizia che nessuno si sarebbe mai aspettato. Carlo trovato morto in garage, impiccato. Un gesto definitivo, senza appello. Paolo non riusciva a darsi una spiegazione. Si chiedeva se avesse mai avuto modo di fare qualcosa, di capire qualcosa prima che fosse troppo tardi. Ma Carlo non parlava. Non aveva mai parlato abbastanza. E forse Paolo, che lo guardava e non vedeva nulla di più che un uomo stanco, avrebbe dovuto capire prima. Ma come fare, quando non c’è nulla da dire?


La sua morte lo colpì come un colpo al cuore, ma c’era qualcosa di strano in tutto quello che provava. Non sentiva la tristezza, ma un’inquietudine che lo faceva sentire dentro la stessa gabbia. Non voglio finire come lui. Quel pensiero gli sfiorò la mente, e Paolo non riusciva a scrollarselo di dosso. Non perché lo temesse, ma perché lo capiva troppo bene. La stessa sensazione di smarrimento, lo stesso peso che ti impedisce di respirare, la stessa solitudine che ti spinge a nasconderti dietro una maschera di normalità.


Il suo respiro si fece più affannoso mentre continuava a guardare il nulla davanti a sé. Il rumore della squadra che si riscaldava in campo arrivava flebile, lontano. Eppure, in quel momento, la finale di Champions League gli sembrava il meno importante. Cosa voleva davvero da quella vita che sembrava non dargli mai niente in cambio? Perché si trovava lì, in quell’istante, con la stessa sensazione di chi sta per cadere? Come Carlo, forse, anche lui si trovava ora in bilico, in attesa di qualcosa che non sapeva se sarebbe mai arrivato.



Continua, forse. Boh



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