Capitolo 3: Tredici tacchetti
La porta dello spogliatoio si aprì con uno stridio metallico.
«Coach?»
La voce di Peter, il team manager, si infilò dentro come una corrente d’aria.
Paolo non si mosse subito. Rimase lì, con lo sguardo fisso su un punto imprecisato del pavimento, finché le gambe del lettino non scricchiolarono sotto il suo peso quando si tirò su.
«Tutto ok?» chiese Peter, avanzando di mezzo passo. «Scendiamo a vedere il riscaldamento?»
Paolo annuì piano, come se la testa fosse appesa a un filo.
«Sì. Tutto sotto controllo,» disse, poi si passò una mano sul collo. «Ma preferisco restare qui ancora un attimo. Christian ha tutto in mano. Io voglio rivedere un paio di cose, giusto un ripasso.»
Peter sembrò voler dire qualcosa, ma si fermò lì. Annuì. Due volte. Poi uscì in silenzio.
La porta si richiuse con lo stesso rumore d’anta vecchia. Paolo si accasciò sul lettino come un pugile tra un round e l’altro. Le luci gli sembravano più forti, più dure.
La tachicardia aveva preso il sopravvento. Non era una battaglia: era una mandria di cavalli che galoppava in tondo nel suo petto, schiacciando le costole, mordendo i polmoni.
In passato c’era solo una persona che sapeva calmarli, quei cavalli. Solo una voce, solo una mano. Claudia.
Claudia.
Nel suo esserci sempre stata, Claudia era diventata invisibile. Un’ombra dolce, silenziosa, sempre al suo posto.
Aveva iniziato a pensare che fosse eterna, scontata. E invece, ad ogni vittoria, ad ogni passo avanti, lei restava due passi indietro. Come un’ombra su un muro che il sole fa sparire.
Quando gli proposero quella maledetta panchina in Serie D — no, non lo disse mai ad alta voce, “Serie D”, come se avesse vergogna della fortuna — a cinquecento chilometri da casa, gli parve tutto perfetto. Una società ambiziosa, soldi veri, casa gratis.
Un treno che passava una volta sola. E Paolo non era più quello del bar, quello che ti mandava affanculo per principio. No, quel Paolo era rimasto indietro con Claudia.
Accettò subito. Certo, avrebbe lasciato l’acciaieria. Ma quel lavoro era stata una galera lenta, una condanna muta. Non gli era mai sembrato di vivere, lì dentro. Solo resistere.
Avrebbe vissuto lontano, sì. Ma con più soldi, e magari — magari — con una vita che poteva far sembrare quel posto un buon posto.
Fece i conti. Mise tutto in fila. Tutto quadrava.
Tranne un dettaglio.
Claudia.
Le sue parole. Le sue speranze. I suoi silenzi.
Lei non urlò. Non protestò. Non fece scenate.
Parlò.
Forse pianse.
Forse gli disse tutto quello che contava.
Ma niente di tutto quello rimase in testa a Paolo. Nessuna parola si aggrappò ai suoi pensieri. Nessuna lacrima pesò per il cazzo di peso che avrebbe dovuto avere.
Partì da solo.
E neanche questo, cazzo, gli sembrò un campanello d’allarme.
Quando tornò, un mese dopo, alla vigilia del campionato, trovò la casa vuota.
Non c’era più niente.
Niente vestiti, niente libri, niente delle sue cose.
Solo le pareti nude e le foto in cui erano insieme, come se quelle fossero state lasciate apposta. Come per dire: ecco, guarda cosa avevi. Guarda cosa hai buttato.
Claudia se ne era andata.
Non lasciò biglietti. Non mandò messaggi. Non fece rumore.
Sparì in silenzio, com’era sempre stata. Ma con sé si portò l’ultima parte viva di un Paolo che, semplicemente, non c’era più.

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